lunedì 5 gennaio 2009

Un virus in mente

Un virus in mente
Si chiamano memi. Sono idee forti, modi di dire, luoghi comuni, ricordi. Come alieni abitano il nostro cervello, colonizzando l'io, stravolgendo il concetto di coscienza, propagandosi a ogni contatto sociale. I comportamenti umani, dalle aspirazioni personali al modo di allevare i figli, dalle guerre all'ansia da nuovo millennio, sono il loro dominio.

di Sylvie Coyaud

Sappiamo di avere una coscienza o un io, una mente, un'anima, un'identità, chiamatela come vi pare. Supponiamo che anche gli altri ne abbiano una, ma siccome non abbiamo modo di percepirla, non ne siamo certi: sospettiamo che in certa gente non ci sia ("è un incosciente") o non funzioni ("gli manca una rotella"). Alla scienza piacerebbe capire di che cosa si tratta, ma è in difficoltà: con le nuove tecniche, osservare l'andirivieni di impulsi elettrici e di reazioni chimiche nel cervello è un gioco da ragazzi, ma le macchine non colgono tutta una parte che emerge da quell'attività. Trent'anni fa, uno scienziato che si firmava Dedalo e teneva una rubrica sul settimanale Nature ha suggerito, per scherzo, l'esistenza dell'"animone", una particella portatrice d'anima così come un elettrone è portatore di energia. Dieci anni fa, John Eccles e Karl Popper - rispettivamente premio Nobel per la medicina e celebre filosofo della scienza - hanno proposto, stavolta sul serio, lo "psicone" quale vettore degli stati psichici. Ancora non s'è visto. Eppure il prodotto della coscienza esiste: ci frulla in testa e ci dà emozioni, ne parliamo con gli altri, gli attribuiamo significati e valori diversi ragionando attraverso immagini, parole e simboli. Come altre esperienze quotidiane, per esempio quella del tempo, non si può catturare alla fonte, ma se ne vedono gli effetti. Quel lavorìo intellettuale è registrato nell'insieme di pratiche e di sapere che gli esseri umani accumulano, si trasmettono e usano per cambiare il mondo: un insieme riassunto in parole come "civiltà", "società" o, meglio, "cultura". Ma che cosa muove la cultura, facendola cambiare continuamente come una creatura viva? Per analogia con l'evoluzione della vita, si è pensato che anche quella culturale fosse dovuta a unità elementari, che si replicano e si diffondono secondo le regole della genetica. Nel secondo dopoguerra, qualcuno le ha battezzate "culturgeni", ma la parola non ha attecchito e l'idea nemmeno, benché avesse sostenitori come Roger Sperry e Jacques Monod, grandi biologi con una passione per la filosofia. Nel 1976, lo zoologo inglese Richard Dawkins pubblica Il gene egoista (Mondadori, 1984). Sostiene che ai geni non importa quale organismo li ospita, importa replicarsi e diffondersi. E aggiunge che non sono gli unici "replicatori" all'opera nel mondo: esistono anche modi di dire e di fare che si diffondono per imitazione e ripetizione, proprio come il Dna. Li ha chiamati "memi", termine ricalcato su "geni" ma anche su "memoria" e "mimesi". Un meme è qualunque cosa ricordiamo e trasmettiamo agli altri che, con variazioni e mutazioni, la imparano, la ricordano e la trasmettono a loro volta. Qualcosa di egoista, di opportunista, che salta da un cervello all'altro fino a raggiungere il dominio assoluto, e pazienza se l'ospite ci rimette. All'epoca sembrava la battuta di un provocatore, di un bieco materialista che voleva spiegare con la forza bruta della selezione naturale gli ideali più eccelsi e le opere più squisite dell'umanità. Gli oppositori si sono indignati, e hanno sperato che la parolaccia dal contenuto offensivo avrebbe fatto la fine dei culturgeni. Invece, dopo un periodo di latenza, è rispuntata in saggi prima inglesi e americani e oggi, nonostante i sarcasmi ("una metafora stiracchiata", l'ha definita il paleontologo Stephen Jay Gould), si replica a tutto spiano fra cervelli pensanti. Il meme ha attecchito. Abbiamo provato a contare gli articoli e i libri usciti sul tema dal 1995 e ci siamo arresi prima di arrivare a 400. Ora che il termine è entrato nel New Oxford Dictionary - sollevando un putiferio - l'ipotesi spericolata si è trasformata in una disciplina fiorente, la memetica. "Ci farebbe qualche esempio pratico di memi?", abbiamo chiesto al filosofo cognitivista e memetista Daniel Dennett, invitato a Milano dalla Fondazione Sigma-Tau per un ciclo di conferenze. "Il "cioè" (like, in inglese) usato come intercalare in mezzo a una frase", ha risposto, "brani di canzoni che non riusciamo a toglierci dalla testa, i balli, i modi di vestire, il concetto di diritti civili o di aiuto umanitario, le sette religiose". Mentre camminava e l'elenco si allungava, Dennett guardava i graffiti sulle case: "Ah, sono arrivati anche qui. Ne ho visti di uguali a Tokyo, dove si usa un alfabeto diverso". Lui aveva previsto che i murales non si sarebbero fermati nella metropolitana di New York. "È proprio un'epidemia", gongolava. "Siamo animali infestati da memi". Aaron Lynch, altro memetista di spicco, ha pubblicato ricerche su diverse riviste specializzate. Poi, però, si è reso conto che quei testi oscuri e zeppi di formule non erano tanto memetici e li ha tradotti, per i non addetti ai lavori, nel libro più rigoroso uscito finora, Thought Contagion (Basic Books). Il contagio del pensiero, sostiene Lynch, influenza tutti i comportamenti umani: razzismo, acquisti, aspirazioni, ansia da nuovo millennio, politiche contro la droga o l'Aids, modo di allevare i figli. Il capitolo in cui descrive come gli investitori si trasmettono fiducia o sfiducia nei mercati finanziari è un'epidemiologia delle crisi economiche da brivido. Viene voglia di mettere i risparmi sotto il materasso. Secondo Lynch, l'egoismo dei memi batte quello dei geni. E fa un esempio: credete nell'astrologia e, da Pesci, siete convinti che il vostro ideale sia un Leone. Segnalate la vostra esigenza ai possibili partner fino a quando ne trovate uno compatibile. Ecco: il meme dell'astrologia si è intrufolato da parassita nel vostro istinto riproduttivo, è lui a scegliere l'anima gemella per favorire la sua riproduzione, non la vostra. Se papà e mamma leggono gli oroscopi, anche i figli lo faranno. Così avviene da sempre, nonostante le previsioni degli astrologi siano statisticamente inaffidabili e tutte le combinazioni di segni presentino lo stesso tasso di divorzi. Dal tritatutto dell'analisi memetica escono malconce non solo credenze innocue come l'astrologia o la leggenda metropolitana dei coccodrilli a spasso per le fogne di New York, ma pure le religioni e le ideologie politiche. Lo strapotere dei memi sarebbe dimostrato dal fatto che gli esseri umani, dopo aver evoluto un cervello capace di inventare linguaggi e mezzi di comunicazione, continuano a lanciarsi in avventure disastrose e autolesioniste. Dovrebbero sapere che a giocare col fuoco ci si brucia, perché risulta da millenni di esperienza archiviata nella cultura. Eppure trovano, ogni volta, nuovi motivi per giustificare l'asservimento degli altri, la violenza organizzata o la pulizia etnica, dimentichi che potrebbero essere a loro volta resi schiavi o uccisi o che la purezza etnica non è mai esistita. Le guerre ideologiche, tribali, religiose sarebbero dunque scontri tra memi. L'americano Aaron Lynch appartiene all'ala moderata della nuova disciplina, la psicologa e neurologa inglese Susan Blackmore all'ala oltranzista. Da marzo, il suo libro The Meme Machine (Oxford University Press) è nei primi dieci best-seller scientifici. L'autrice ci invita a "pensare memetico", a calarci in un mondo in continua trasformazione - che chiama "memeosfera", per analogia con la biosfera - fatto di cervelli nei quali i memi si danno battaglia finché i più deboli sono eliminati. Questi elementi ci spingono a pensarli e ripensarli, scrive la studiosa, per meglio incidersi nella nostra memoria; a parlare per meglio scambiarceli nella conversazione; perfino a collaborare tra noi per meglio realizzare le invenzioni che rafforzano ancora di più i memi usciti vincitori: chiese, partiti, biblioteche, e il primo vero regno memetico, Internet. Più siamo collegati più subiamo il contagio. Antichi memi hanno fatto di noi esseri socievoli e ansiosi di comunicare, il che è un bene per la nostra specie. Ma, a furia di riprodursi, hanno avuto bisogno di un habitat più grande - il nostro cervello e il cranio che lo contiene - rendendolo troppo grosso rispetto alla pelvi delle donne e causando una strage di madri e neonati. Non lamentiamoci: ci resta la cultura, la rete nella quale i memi circolano sempre più veloci e spietati. Tra poco la porteranno su altri mondi insieme alle navi spaziali che noi, poveri ingenui, crederemo di aver ideato per appagare la nostra curiosità e la nostra sete di conoscenza. Siamo tutti - meno i memetisti più perspicaci, s'intende - vittime di un inganno. Questi replicatori alieni ci hanno ridotti a puro supporto del loro proliferare, illudendoci che il nostro cervello abbia creato il patrimonio materiale e spirituale in cui viviamo. Se Aaron Lynch dice solo che gli stati di coscienza sono saturati e manipolati dai meni, Susan Blackmore compie l'ultimo passo. Coscienza? Identità? Libero Arbitrio? Non esistono: "Il sé è un mito. Guardate dentro il cervello, ci troverete soltanto neuroni. Lì dentro, non esiste un posto dove le decisioni consce vengono prese, qualcosa che custodisce le credenze e le opinioni, anche se molti di noi continuano a pensarlo". Non c'è nessuno. C'è invece la risposta radicalmente nuova alla domanda "Chi sono io?" ed è piuttosto terrificante. ""Io" sono uno dei numerosi gruppi di memi che si sono adattati a vivere in quel cervello prodotto dai geni". Susan Blackmore non è terrificata: è buddista, non crede nell'io individuale. È sicura che nelle connessioni sinaptiche tra i neuroni si scopriranno le tracce dei memi più travolgenti. Quel giorno, dice, la gente smetterà di usare la parola fra virgolette. Il problema è che, appena si tolgono le virgolette, si diventa come lei, Lynch e Dennett: si scoprono replicatori culturali dappertutto. Succederà anche a voi, vedrete. "Dobbiamo informarvi che la lettura di questo articolo vi ha contagiati con il meme più robusto del pianeta: il "metameme" o meme della teoria dei memi", hanno scritto alla fine di una lunga dissertazione tre scienziati svedesi, Henrik Bjarneskans, Bjarne Grønnevik e Anders Sandberg. Anche noi, ora, siamo fra gli untori, ma almeno abbiamo messo all'inizio l'avvertenza "Attenzione: virus della mente".